"Bon Voyage" dell'eutanasia ha aperto la sezione Visti da Vicino
Source: BergamoNews
Bergamo. Inizia subito come meglio non avrebbe potuto "Visti da Vicino", la competizione di Bergamo Film Meeting dedicata ai documentari.
Sabato 9 marzo, insieme al debutto della Sala dell'Orologio (una nuova sala di proiezione all'interno del Palazzo della Libertà, nata anche grazie all'impegno di Lab80), il concorso ha presentato come primo film in programma "Bon Voyage", un documentario struggente e lucido allo stesso tempo diretto dalla francese Karine Birgé, che dalla sua terra si sposta in Belgio dove forma un "teatro di oggetti". La messa in scena di una "seconda vita", come quella desiderata dalla nonna della regista che, nell'estate 2018, a 103 anni (quasi sorda e cieca e non in grado di muoversi autonomamente), sceglie di lasciare la Francia per andare a morire in Belgio. Come risposta ad una vita che "non è più vita", la nonna sceglie, lucidamente, "una morte dolce e facile".
Dal Belgio alla Francia per fuggire alla minaccia nazista e poi viaggio inverso in cerca di una morte desiderata, nonostante le lungaggini della legislazione francese e le contrarietà del resto della famiglia. Desideri e contrarietà che nel film emergono grazie a diverse tracce sonore, registrate da Birgé che, così facendo, riesce a dare prova anche delle volontà della nonna.
Parole che emergono e si intrecciano, mente sullo schermo prende forma un piccolo teatro di bambole ed oggetti, dove si materializzano parenti, amici, il dottor Frankenstein (colui che riporta in vita i morti) e Chantal Goya, con la sua "Voulez-vous danser grand-mère?". Danza, la nonna, insieme alla morte: un momento di catarsi, più poetico che ironico.
"Non volevo utilizzare immagini crude della morte" spiega Birgé, immergendo il documentario in un flusso di immagini che si rifanno sia al lavoro della regista che a quello della nonna (addetta in una fabbrica di bambole), in cui le bambole si fanno simulacro, ma non attenuano il dramma di una scelta così forte e decisa. Un documentario che mostra come l'eutanasia non sia solo "schiacciare un bottone", quanto la riscoperta del posto della morte all'interno della nostra società. Suonano, i notturni di Chopin, mentre tutta la famiglia è attorno al letto della nonna, pronta al "grande viaggio". Nessuna rappresentazione, nessun effetto melodrammatico, solo la cruda realtà di voci che ricordano al pubblico come "sia sempre difficile lasciar andare qualcuno che si ama".
Esperienza drammatica anche quella descritta in "En Tavs Histoire" ("A Silent Story"), documentario d'esordio del danese Anders Skovbjerg Jepsen. Un film autobiografico che racconta come, dai sei ai dodici anni, Anders venga sfruttato sessualmente dal tredicenne Peter, un amico d'infanzia. Un trauma indicibile, che il regista, ora adulto, vuole affrontare parlando direttamente a Peter. Un senso di colpa e vergogna, alimentati dal silenzio, pervadevano il regista che, spesso al centro della scena, vuole affrontare l'abuso, ricostruendo un passato rimosso. A figura intera e in piani sempre più ravvicinati (forse troppi), Anders si muove in spazi di volta in volta più claustrofobici, così come le inquadrature che utilizza. Emergono molte pause nel racconto, molti silenzi che vedono Anders protagonista, incapace di trovare una via di fuga. Una fuga da trovare solo attraverso il dialogo. "Ho iniziato a registrare nel 2018 - spiega il regista - ma sono serviti quasi cinque anni, perché in alcuni periodi Peter scompariva letteralmente". Un senso di colpa accompagnato ad un meccanismo di rimozione, che non ha permesso di affrontare al meglio la questione, così anche con il padre, che nasconde da sempre le proprie emozioni. "Come andare avanti?" si chiede il regista. Una risposta forse non esiste, se non nella scena finale, quando Anders sembra ritrovare la gioia dell'infanzia insieme alla figlia. Un lungo processo di guarigione, per il quale è stato fondamentale squarciare il silenzio ed affrontare il confronto.
Nella sezione Cinema e Arte Contemporanea (in collaborazione con The Blank) è stato presentato "Kala azar", dell'artista e regista greca Janis Rafa. Anteprima di ArtDate, sulla tematica del "divorare", mostra una giovane coppia che si occupa del recupero dei cadaveri di animali domestici (e non) per cremarli e restituire le ceneri. "Kala azar" è la malattia infettiva chiamata leishmaniosi, che nel film tramuta i cani in corpi morti e li fa convivere con i vivi. I particolari dei corpi dei due amanti si accompagnano ai dettagli degli animali, che diventano quasi nature morte. Particolari e dettagli che si rivelano al pubblico in una molteplicità di sensi, formando un lungometraggio "tattile", dove si presta attenzione al quotidiano e in cui si entra in un rapporto epidermico con ciò che si sta vedendo. Janis Rafa continua ad esplorare le tematiche del tatto e dell'igiene, con movimenti ed azioni che comunicano più delle parole. Nel film si può leggere una sorta di malinconia, accompagnata da una desolazione del paesaggio, reso vivo dall'incessante abbaiare dei cani fuoricampo. In "Kala azar" tutto appare "uncomfortable", come definito dalla stessa regista, mentre gli animali sembrano cantare un "requiem per l'umanità".